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Presentazione de "La casina Valadier" di Giovanna Gay

a cura di Cinzia Gatti

Un brano più di ogni altro continuava a risuonarmi tra quelli dei racconti di Giovanna Gay come in grado di restituire un poco delle sensazioni che la lettura della Casina Valadier mi aveva trasmesso.  
“Chi è in realtà Lula e da dove tra il suo potere? Qualcosa comincio a capire poco dopo, quando usciamo di lì e andiamo a prendere un caffè insieme. Lula mi si avvicina affabile e mi chiede dei bambini, del divorzio. Se sono felice Parla senza imbarazzo e con interesse sincero per la mia intimità di donna. Parla con intelligenza folgorante di quelle grandi piccole cose che all'epoca bisognava nascondere nella buona società della sinistra, far finta che non fossero importanti. Allora comincio a capire: È la prima donna libera incontro.”

La scrittura di Giovanna Gay si presenta come straordinariamente  femminile e mi pare che, proprio in quanto donna, riesca a dire di cose di cui di norma non si parla o, forse meglio, non si scrive. Il libro di Giovanna si articola in sei racconti, psicoracconti come lei li definisce, in cui si parla di amore, e si parla di analisi.
Si parla di analisi perché tanti sono gli analisti e le analisi che vi compaiono, perché le protagoniste delle storie di Giovanna sono donne che si cercano attraverso l'avventura analitica, in un mondo che è quello della generazione del movimento femminista.
In quella generazione, come lei stessa scrive nel primo dei suoi racconti, iniziano ad affacciarsi donne che vogliono tutto, che vogliono il lavoro e vogliono la famiglia, che non sono disposte ad accontentarsi dell'una o dell'altra cosa. Una generazione di donne nuove, che nel mondo del lavoro e del pensiero porta la singolarità del proprio essere femminile e che cerca nell'analisi  il proprio peculiare modo di essere al mondo, e di amare. 
I concetti psicoanalitici entrano a far parte della narrazione, ad arricchire il mondo interiore e le sensibilità delle protagoniste, a mostrare la complessità ed il mistero del mondo che ai loro occhi si dispiega, in un modo che restituisce l'avventura analitica con grande autenticità, forse più che in molti racconti di casi clinici.
Mi sono chiesta se questo avesse a che fare con la forma narrativa, come se la letteratura rispondesse meglio all'esistenza di rappresentare la psiche di qualsiasi saggio scientifico, in virtù della sua capacità di articolare il sentimento, del suo consentire l'immedesimazione, in ultimo forse perché la psiche stessa sembra parlare per storie.

Nei primi due racconti l 'autrice parla di un concetto introdotto da Jung che è quello di ombra, ovvero quanto per la sua sgradevolezza, etica od estetica, è spinto lontano dalla coscienza individuale o collettiva e sempre massimamente appare proiettato nell'altro, che ci disturba e sembra perseguitarci.
La protagonista del primo racconto improvvisamente vede mutare l'uomo amato in un mostro e non sa darsi pace di questa trasformazione, da essa è spinta alla ricerca ed infine alla trasformazione di sé stessa. L'incapacità di divenire consapevole ed il rifiuto a cambiare sembrano invece portare alla malattia ed infine alla morte un altro dei personaggi. Anche in un altro ulteriore racconto una cara amica si ammala prima psichicamente e poi fisicamente perché sembra non riuscire a comprendere e a portare sulla terra aspetti di sé che rifiuta, perché, in ultimo, non riesce a cambiare.
Quello che non si riesce a rappresentare, come immagine o pensiero o sentimento, si condensa del corpo, lo fa ammalare; non riuscire ad accettare la morte simbolica di quel si è per trasformarsi in qualcosa di nuovo conduce alla morte reale.
Se questo è alla base di molte riflessioni sul tema della psicosomatica, se è l'invito ad accogliere molti dei dolori che ci affliggono come una chiamata al  cambiamento e quindi una possibilità, mi è parso forse ancor più pregante l'ammissione che, in ultimo, il male è sostanzialmente inspiegabile: nonostante le ipotesi che la voce narrante e la figlia della amica così amata compiono, esso resta in ultimo un mistero, bisogna arrestarsi e ammettere che non si sa perché; perché la donna si è ammalata, perché è dovuta morire, perché è venuta a mancare a quanti la amavano.

Il terzo ed ultimo punto che vorrei toccare è relativo alle cose che di norma non si scrivono. Nel libro appaiono più di un amore tra un analista e la sua paziente, e sempre analisti maschi e pazienti femmine, e sappiamo tutti che è cosa che non deve accadere, in virtù della relazione asimmetrica che c'è tra analista e paziente, poichè in ragione di questa asimmetria si configura la possibilità di un abuso. Anche nel racconto, in qualche modo, in parte la possibilità di un abuso si intuisce, perché quello che la protagonista - paziente - cerca davvero è “una calma esaltazione”, che ha provato nella relazione con il padre, mentre la spinta a vivere l'eros sembra provenire più dal protagonista maschile. La relazione autenticamente finisce quando la bimba bisognosa che albergava all'interno della paziente alla fine “guarisce”, quella bambina perduta che l'analista amava cessa di esistere. Viene da chiedersi se questa guarigione avrebbe potuto attuarsi all'interno del setting analitico.  Con il transfert erotico è nata la psicoanalisi e il transfert notoriamente dovrebbe sciogliersi all'interno del setting, per restituire il paziente alla sua vita. Allo stesso tempo, per usare le parole di uno dei personaggi del romanzo, che all'invito ad adottare la soluzione che di norma si consiglia in tali casi risponde:  forse che un amore si risolve con una supervisione?


dott.ssa Cinzia Gatti - psicologa